MOSTRA FOTOGRAFICA DIFFUSA: TORBIDO DI AGOSTINO ARTESE

tórbido agg. [lat. tŭrbĭdus, der. di turba «confusione, disordine»]. – 1. Di un liquido, privo di limpidità, di trasparenza, per avere in sospensione sostanze che ne diminuiscono l’originaria e naturale chiarezza. 

Torbido, progetto fotografico realizzato da Agostino Artese e curato da Giovanna Pesce per B-r-o-d-o, nasce da un precedente progetto che poneva l’attenzione sul turismo di massa nella città di Venezia. L’approccio al tema non è di tipo documentario ma bensì personale ed intimo, attraverso un punto di vista linguistico-fotografico.

L’opacità del turismo di massa è stata rappresentata metaforicamente da volti sgranati, ottenuti da ritagli di precedenti fotografie, i quali riflettono il desiderio di affrontare temi come la monotonia e la deturpazione del territorio di cui il turismo di massa è generatore. Tanto a livello paesaggistico e di scoperta, come a livello emozionale, è l’immagine di superficialità che distingue il turista dal viaggiatore.

Alla luce dell’attuale situazione sanitaria a livello globale, le immagini del precedente lavoro, legate al passato e ad altre circostanze, risultano paradossalmente molto attuali come strumenti per raccontare il presente, il momento preciso che stiamo vivendo. 

Reinterpretando queste immagini d’archivio nasce quindi una seconda riflessione: le immagini vivono una nuova contemporaneità portando con sé altrettante domande, convertendosi in simboli e rappresentazioni delle problematiche attuali.

Di fronte ai volti che le fotografie cristallizzano sorge inconsciamente una sorta di pregiudizio: l’immagine si  carica di senso e si macchia di altre interpretazioni in base al contesto culturale di riferimento di chi la osserva e  la interpreta. Si creano così associazioni mentali particolari, soprattutto in questo momento storico, per le quali  questi volti tendono ad essere associati ad un territorio che è stato punto di diffusione della pandemia. Il progetto di Torbido è quello di lavorare su questo apparato simbolico, su queste costruzioni mentali: tanto i creatori, come gli spettatori, riflettono sul potenziale delle immagini che guardano e sulla particolarità che le stesse immagini sono, delle superfici ‘torbide’ che necessitano di un livello più profondo di lettura e  comprensione.

Nel linguaggio cinematografico il primo piano viene usato comunemente per mettere al centro il soggetto, la  persona, e consentire allo spettatore di avvicinarsi ai personaggi della messa in scena.

In Torbido questo espediente fotografico-linguistico viene portato all’eccesso: il volto ingigantito, sgranato, quasi disumanizzato diventa un elemento spiazzante e spinge la gente ad interrogarsi su cosa sta realmente osservando: il soggetto delle immagini è totalmente decontestualizzato, diventa inafferrabile, inconoscibile. Installare queste immagini per strada, lungo i marciapiedi e sui muri degli spazi urbani rende la visione ancora più precaria ma, al contempo, frutto di una scelta intenzionale.

Le immagini si rivelano lentamente, interrogano gli schemi percettivi delle persone: cosa fa pensare un volto asiatico in questo preciso momento storico? La gente viene messa all’angolo, tra paure e pregiudizi, trasformando questi faccioni inconoscibili nello specchio del proprio inconscio.